Un articolo pubblicato il 26 ottobre 2017 sul quotidiano “La provincia di Varese” (Laura Ruscica, «Io? Sono intersessuale». La storia di Sabina Zagari, che non appartiene né al genere maschile né a quello femminile) mi offre uno spunto per smentire alcuni luoghi comuni sulla “intersessualità”, realtà che viene citata sempre più spesso fra quelle appartenenti al movimento “lgbti” (dove “i” sta appunto per “intersessuale”).
Con “intersessualità” (termine-ombrello che ha ormai preso il posto del più antico “pseudo-ermafroditismo“) si definisce la condizione fisica di un corpo umano in cui, di solito per cause genetiche, i caratteri sessuali primari e secondari hanno avuto uno sviluppo percepibilmente diverso da quello della maggioranza.
Nella gran parte dei casi abbiamo malformazioni più o meno lievi dei genitali, ma in alcune situazioni assai più rare si hanno condizioni sessuali “intermedie”, come nella Sindrome di Morris. In essa l’organismo, dotato di cromosomi “maschili” XY, risulta insensibile agli ormoni “androgeni” (che “mascolinizzano” il corpo) ma non a quelli “estrogeni” (che “femminilizzano”) presenti naturalmente (in quantità minore) anche in ogni corpo maschile. Il risultato è che pur essendo cromosomicamente maschile, il corpo si sviluppa secondo un aspetto più o meno femminile. Tant’è che le persone con questa sindrome sono di solito allevate come bambine e diventano donne, scoprendo in alcuni casi la loro condizione solo al momento di cercare le cause della loro sterilità.
Ebbene, un aspetto interessante della “Sindrome di Morris” è che queste donne hanno un’identità di genere e nella maggioranza dei casi un orientamento sessuale “eterosessuale” secondo il sesso femminile “apparente”, e non secondo quello maschile “biologico”. Ciò pone ovviamente domande assai intriganti sulle radici dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, che purtroppo non è il caso di discutere qui.
Nella “Sindrome di iperplasia surrenale” si verifica invece il caso inverso: essa può colpire sia maschi che femmine, ma causando una produzione eccessiva di ormoni androgeni, provoca la virilizzazione degli organismi che da un punto di vista cromosomico sono perfettamente femminili.
L’importanza che ha la condizione intersessuale per la comprensione di cosa sia mai l’orientamento sessuale e di cosa sia mai l’identità di genere, ha convinto le/i militanti “queer” a considerare l’intersessualità come parte della condizione omosessuale, portandoli/e a ottenere – a mio parere sbagliando – che fosse aggiunta la “i” di “intersessuale” alla minestrina di lettere del “movimento lgbt”, come per esempio nel caso di Arcigay, che si definisce ufficialmente “Associazione lgbti italiana”.
Da questo breve riassunto credo sia possibile notare come l’articolo de “La provincia di Varese” si riveli già nel sottotitolo (“non appartiene né al genere maschile né a quello femminile”) specchio della confusione d’idee che in Italia circonda questa condizione. Sabina Zagari parla infatti di se stessa al femminile, e così facendo afferma di considerarsi appartenente eccome a un genere ben preciso, quello femminile.
La giornalista ha qui confuso “sesso” e “genere“, visto che l’incertezza che ha influito negativamente sulla vita della Zagari riguarda semmai il suo sesso biologico, non il suo genere di appartenenza, e tanto meno la sua identità di genere.
A questo punto viene da chiedersi a cosa ci sia servito insistere con tanta tenacia per distinguere “sesso” da “genere”, se poi parlando usiamo le due parole come se volessero dire la stessa cosa, quasi che stessimo parlando di “perossido d’idrogeno” e di “acqua ossigenata” (che sono la stessa cosa).
Purtroppo però leggendo quanto gira in Rete si nota immediatamente che la confusione mentale su sesso e genere non si limita solo a questo articolo, ma è costante anche tra i militanti lgbtquiapdjasfajksflako. Amen.
La seconda magagna sta nel paragrafo iniziale:
Intersessuali si nasce, ma come si vive? In un periodo storico nel quale anche l’Italia sta riconoscendo i diritti gay, è importante essere informati e conoscere il mondo lgbti, che non vede la sola esistenza di persone omosessuali, ma anche bisessuali, transessuali e, appunto, intersessuali.
A voler essere rigorosamente queer, no, intersessuale non si nasce, si diventa.
In primo luogo, perché si può essere “inter”sessuali solo presupponendo, in barba a tutti i dogmi più cari alla religione queer, l’esistenza oggettiva del binarismo sessuale, ossia di due poli biologici nell’INTERmezzo fra i quali esiste la INTERsessualità.
Ovviamente la religione queer non può accettare questa idea: già nel lontano 1993 la biologa Anne Fausto-Sterling sostenne che proprio l’esistenza delle persone intersessuali ci autorizza a negare l’esistenza due soli sessi: come minimo possiamo parlare di cinque. (Questa opinione fu ribadita nel 2000).
Qui non ci interessa decidere se la Fausto-Sterling avesse ragione o torto, essendoci sufficiente rimarcare che l’esistenza stessa delle sue tesi dimostra che la “intersessualità” come condizione unitaria non è nient’altro che una “costruzione sociale”. Ciò è confermato da un saggio del 2002 in risposta a quello della Fausto-Sterling, nel quale è dimostrato che, a seconda di cosa si definisca come “intersessuale”, il numero di persone intersessuali varii anche di cento volte (dall’1,7% della popolazione umana secondo la Fausto-Sterling, che ingloba qualsiasi variazione anche minima dei caratteri sessuali, allo 0,018% secondo l’autore del secondo saggio, che si limita ai casi di effettiva presenza di caratteri sessuali “intermedi”).
Indipendentemente dal fatto che avesse ragione l’una o l’altro, è quindi appurato che quella degli “intersessuali” è una categoria medica astratta, socialmente determinata, e culturalmente collocata. Cultura, non natura. Per parafrasare Simone de Beauvoir, “Intersessuali non si nasce, si diventa“, a seconda che a catalogarti sia la Fausto-Sterling o qualcun altro.
“Si nasce”, semmai, con la Sindrome di Morris, o con l’ipospadia congenita, dopodiché è una decisione culturale, politica, a decretare che chi nasce con quella sindrome debba essere, o non debba affatto essere (nel 99% dei casi!) etichettato come “intersessuale”.
Tutto questo, si noti, in base a un ragionamento rigorosamente “queer”. Quello stesso che afferma che “l’omosessualità non esiste”. Evviva la coerenza.
Il punto problematico successivo è l’affermazione secondo cui:
In un periodo storico nel quale anche l’Italia sta riconoscendo i diritti gay, è importante essere informati e conoscere il mondo Lgbti, che non vede la sola esistenza di persone omosessuali, ma anche bisessuali, transessuali e, appunto, intersessuali.
Si noti come la questione dei “diritti gay” sia stata qui (intenzionalmente) incasinata ipotizzando un inesistente “mondo lgbti“, nel quale si fantastica convivano a fianco a fianco gay, lesbiche e bisessuali (che conducono una battaglia legata al riconoscimento del loro orientamento sessuale), transessuali (che conducono una battaglia legata al riconoscimento della loro identità di genere) e intersessuali (che conducono una battaglia legata alla loro condizione biologico/sanitaria).
Quali sono però i punti di contatto fra una donna non intersessuale, di orientamento omosessuale, e con identità di genere femminile, e un uomo intersessuale, di orientamento eterosessuale e con identità di genere maschile? In quale di questi sei punti esiste una “intersezionalità” di problematiche, che consenta di portarle avanti assieme? Quando mai accade che i problemi di uno dei gruppi si identifichino, “intersezionalmente”, con quelli d’un altro?
Sono cosciente del fatto che non è colpa della giornalista se oggi esiste tale confusione: la colpa è nostra, che abbiamo permesso che essa sorgesse. Facendo così il gioco della società etero-patriarcale, che grazie a noi e al “bidone della spazzatura” lgbtiaq può decretare che il maschio eterosessuale intersessuale non è un “maschio eterosessuale come tutti gli altri“: il suo posto è nel “terzo sesso” assieme ai froci, e a tutto il resto della spazzatura “non-eteronormativa”.
La perplessità ulteriore mi nasce nella frase successiva dell’intervista, nella quale leggo:
Ne parlamo con la varesina Sabina Zagari, fier* di essere intersex.
Perché “fier*“? Sabina parla di sé al femminile. In questo modo ci comunica la sua identità di genere. Infatti Sabina non è una transgender: è una donna con una conformazione che la rende fisicamente diversa dalle altre. Come lei stessa spiega:
“Intersessualità è un termine che comprende sotto di sé diverse variazioni fisiche, per lo più a livello di cromosomi, marker genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi e genitali“.
Nonostante questo avviso, però, persone transessuali e persone intersessuali sono troppo spesso trattate come se fossero un’unica categoria. Dunque, ci siamo sbranati per trent’anni sui termini da usare per definirci, per poi confondere un gruppo con un altro?
Il bello è che è la stessa intervistata a lamentarsi per prima di tale confusione, affermando:
Il 99% della popolazione non sa cosa voglia dire essere intersessuale. Anche in àmbito medico questa condizione è sconosciuta. Mi è capitato di andare a fare gli esami del sangue all’ospedale di Varese e di essere scambiata per una Transessuale.
L’ambiguità successiva emerge da un’affermazione della Zagari. Che protestando contro la prassi d’intervenire chirurgicamente sui bambini per “aggiustare” la forma dei loro genitali, afferma:
L’identità di genere (…) si sviluppa con il tempo. Non è solo una questione di educazione ma anche biologica, perché durante la gestazione noi subiamo l’effetto di entrambi gli ormoni, maschili e femminili. Mi piace dire che il nostro cervello è come un vinile su cui è impressa una traccia: questa è l’identità. Qualcosa di innato, che non si può incidere chirurgicamente e che richiede consapevolezza.
Riassumendo: l’identità di genere non è innata, scritta fin dall’inizio nel corpo: essa infatti “si sviluppa nel tempo”. Al tempo stesso l’identità di genere è innata, scritta nel corpo, come in un vinile su cui sia incisa una traccia… Oh mamma mia.
Qui sospetto che ci sia stato un fraintendimento, e che l’intervistata avesse detto più correttamente che a suo parere l’identità di genere è sì biologicamente determinata, ma non potendosi manifestare già quando siamo neonati, essa va lasciata “svilupparsi” appieno, intendendo dire “manifestarsi”, prima che gli adulti decidano d’intervenire chirurgicamente sul corpo del bambino/della bambina per armonizzare caratteri sessuali e identità di genere. Per dirla con le parole di Sabina:
“La scelta spetta esclusivamente alla persona intersessuale, quando sarà grande abbastanza da poter comprendere la situazione“.
Si noti insomma quanto sia facile, in questo campo, se non si dosano con prudenza le parole, contraddirsi nel giro di due frasi.
Nella parte conclusiva dell’intervista appare infine uno dei punti più condivisibili ed emotivamente intensi: quello in cui Sabina Zagari ribadisce che gli interventi chirurgici ai genitali vanno eseguiti in età adulta, e che dev’essere la persona direttamente interessata ad autorizzarli:
è giunto il momento di avere dei diritti, e dobbiamo dire basta alle mutilazioni genitali in Italia. E’ inutile fare campagne contro l’infibulazione in Africa, quando da noi la stessa pratica viene eseguita in modo legalizzato.
Tutto ciò è molto vero e molto giusto.
Non può però non saltare subito alla mente il fatto che il medesimo discorso si applica parola per parola anche agli interventi medici sui/sulle minorenni “transgender“, che stanno prendendo piede come un incendio in America e stanno ormai per sbarcare in Italia (le avvisaglie le vedo già).
Per questo ad essi dedicherò uno dei miei interventi futuri.
Giovanni Dall’Orto, 2/11/2017.
Altro articolo molto interessante!
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