In Ungheria Orban ha appena ottenuto la legge che proibisce di scrivere sui documenti, all’indicazione del sesso, altro che il sesso accertato alla nascita. Rendendo in questo modo impossibile la transizione anagrafica di sesso.
Questa preoccupante notizia richiede riflessione e soprattutto dibattito. Al di là dei social media, dove estremizzare le posizioni è il requisito per avere più “like“, nella vita reale la politica richiede anche la capacità di negoziare.
Che nel caso dell’attuale dibattito sulla questione trans manca, perché ognuna delle due parti in causa nega che la controparte abbia diritto a negoziare alcunché, anzi le nega il diritto ad esistere.
Mi sono sempre schierato, notoriamente, contro il transchilismo queer, che ha teorizzato che i diritti delle persone trans possono essere ottenuti solo a scapito di quelli delle donne, ma esattamente perché ho sempre fatto questo non vedo perché ora dovrei trovare più gradevole o accettabile il talebanismo e il “nogenderismo” che sono alla base di questa stupida decisione, che si basano sul medesimo principio.
L’equivoco nasce qui da due fatti, veri entrambi, ma che una delle due parti rifiuta di riconoscere a metà.
Uno, il sesso biologico non si può cambiare.
Due, la registrazione anagrafica del sesso (il “sesso anagrafico”) è una mera convenzione giuridica, e si può cambiare. Può essere per esempio errata, ed essere quindi corretta. In quel caso non è cambiato il sesso della persona, è cambiata la sua definizione giuridica. Quindi modificare una registrazione anagrafica è una pura decisione burocratica, nient’altro.
Ci sono molti casi di finzioni giuridiche che hanno effetti concreti sia sulla vita di un individuo che su quella della collettività. Pensiamo per esempio all’adozione.
Una legge come quella di Orban equivale a una legge che proibisse l’adozione in base all’argomento che la filiazione può essere solo quella biologica [una tesi che i cattolici ultra-tradizionalisti, in effetti, sostengono].
Il punto è che anche la definizione di cosa sia il “sesso biologico” è aperta a incertezze ed ha margini sfumati, perché lo è ogni definizione del linguaggio che parliamo. Questo aspetto fa parte della natura stessa del linguaggio, su cui sia queer che femministe radicali si rivelano spaventosamente ignoranti pur avendo messo il linguaggio al centro delle loro riflessioni.
Ma il linguaggio è al 100% convenzione sociale, e questa regola vale per ogni linguaggio, dalla lingua dei segni alla matematica (un linguaggio le cui convenzioni io non condivido con nessuno è totalmente inutile come linguaggio. Letteralmente, è solo un parlarmi addosso). Il linguaggio “significa“, ossia, in latino, indica col dito, fa un segno in direzione di un significato. Ma il significante non è esso stesso il significato. È solo una convenzione che “fa cenno” ad esso.
Una donna con la sindrome di Morris ha cromosomi XY, ma genitali esterni e sviluppo corporeo femminile, tanto che di solito tale sindrome passa inosservata alla nascita e viene diagnosticata solo quando alla pubertà non appaiono le mestruazioni. Le donne con questa sindrome sono state registrate alle nascita come femmine, educate e socializzate come tali, si identificano come tali, e dettaglio intrigante, sono per lo più sessualmente attratte dagli uomini. Sono “femmine” sotto ogni punto di vista… tranne i cromosomi sessuali.
Ultimamente, cosa mai accaduta prima che il dibattito si polarizzasse, mi sono sentito dire da femministe radicali che una donna con questa sindrome è un maschio. Affermazione per cui prima o poi qualcuna di loro finirà in tribunale per diffamazione, perché di questo si tratta.
La domanda che mi faccio, di fronte a tale quadro, è chi abbia mai concesso o delegato il diritto di decidere chi sia uomo o donna ai fanatici queer o alle fanatiche femministe o ai fanatici no-gender. O ai fanatici di qualsiasi altro tipo.
La risposta è: nessuno. È un diritto che spetta all’intera società e che costoro si sono arrogati per sé solamente, e in base al quale oggi insultano (come “qualcosofobo” o “misoqualcosa” o “qualcosista”) chiunque lo contesti loro.
Il sesso lo decidono i cromosomi. Da questo punto di vista, la lagna del “nat* in un corpo sbagliato” è una fregnaccia: nessun corpo è sbagliato, ogni corpo è esattamente quello che i cromosomi hanno fatto in modo che fosse.
Ciò premesso, come denominare il sesso è una decisione linguistica, ossia sociale e politica.
Non c’è nulla di sbagliato nel definire “donna” una persona nata maschio, o viceversa. “Maschio” indica il suo corredo genetico, “donna” indica il suo modo di esprimerlo socialmente. Non lo dico io, lo disse Simone de Beauvoir: “Non si nasce donna, lo si diventa“. Nel senso che, proprio come dimostra il caso delle donne con sindrome di Morris, il sesso da solo non definisce di per sé, non è un destino, non è una condanna, perché tutti nasciamo femmine o maschi (salvo lo 0,001% di casi indecidibili), ma è la socializzazione che ci rende uomini e donne.
Le leggi sulla riattribuzione del sesso anagrafico non sono un capriccio: si limitano semplicemente a prendere atto della complessità del rapporto fra sesso biologico ed espressione sociale del sesso (che a molti piace chiamare “genere”). L’anagrafe non è una cartella medica (su cui è giusto che appaia il sesso biologico: io non corro nessun rischio di ammalarmi di cancro all’utero, ma di quello alla prostata sì… E ciò vale anche per una donna trans, che le piaccia o no), l’anagrafe è una registrazione di una convenzione sociale. Che come tale può essere qualsiasi cosa una società convenga che sia. Per millenni il matrimonio è stato, per definizione, un negozio fra un uono e una donna. Oggi non lo è più. Così funziona la storia.
Purtroppo lo scontro attuale verte fra chi vuole cancellare completamente l’esistenza del sesso biologico riducendo tutto a un parto dell’immaginazione chiamato “true gender“, e chi vuole cancellare la coscienza del carattere arbitrario della espressione sociale del sesso riducendo tutto a una “biologia” che è a sua volta un parto dell’immaginazione.
Non esiste una biologia che abbia un significato sociale senza una mediazione culturale e politica. Lo abbiamo visto in questo giorni di Covid-19, quando “vecchio” (un descrittore biologico, per quanto vago e impreciso) si è tradotto in “vita non degna di essere vissuta”, che è una definizione politica. (Nazista, per la precisione).
Che fare, allora?
Io vedo una soluzione unicamente nella ricerca di una terza strada fra queste due, che stabilisca una volta per tutte che un diritto ottenuto spogliando qualcun altr* di un analogo diritto, non è un diritto ma un sopruso, una prevaricazione.
I miei diritti finiscono dove iniziano quelli degli altri. Averlo dimenticato è ciò che ha reso possibile l’incubo di questa legge di Orban.
Occorre reagire, e non certo come ho già visto fare dando la colpa alle cosiddette, e inesistenti, TERF (Orban odia le donne quanto gay e trans), ma riconoscendo che questa legge è figlia dell’idea che i diritti si ottengono solo privando gli altri, e le altre, dei loro diritti. Un’idea che va combattuta e sconfitta, se esiste ancora qualcuno a cui i diritti umani importano più che un fico.
a rischio di sembrare semplicista, ma se chi si ha davanti non sono ne’ i propri dottori, ne’ i propri amanti, ne’ i propri confessori, con quale altra autorità si debbano a costoro spiegazioni di una cosa così intima e privata?
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La sessualità umana ha una dimensione privata ed una sociale. Lo scontro avviene per la presenza di due scuole di pensiero, entrambe totalitarie, che negano l’una la dimensione sociale, l’altra quella privata (e il diritto alla privacy). Non sarà facile venirne fuori, come ogni volta in cui due fanatismi si sono scontrati in campo aperto.
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