Un mio amico, attivista gay, ha scritto sulla sua pagina Facebook quanto segue:
“Il sesso biologico esiste.
Poi esiste l’identità di genere, che è ciò che fa di noi uomini o donne.
Non sempre l’identità di genere è allineata al sesso biologico.
Ma è l’identità di genere a fare di noi uomini o donne. Non è certo una scelta, ma una condizione esistenziale.
Abbiamo lottato decenni per affermare questa realtà, confortati in questo dalla scienza e dalla legge.
Il biologicismo lo lasciamo ai clericali e alle terf. E lo combattiamo.“
No, caro amico, non è l’identità di genere a fare di noi uomini e donne. La sua definizione è troppo imprecisa, e usarla rischia di lasciare spazio per un approccio superficiale.
Ciò che fa di noi uomini è donne è il risultato di una complessa negoziazione fra ciò che è il nostro corpo (ossia “sesso biologico”) , ciò che la società ritiene che significhi il fatto che abbiamo il corpo che abbiamo (ossia “genere”), e ciò che noi pensiamo che ciò significhi (ossia “identità di genere”).
Tutte le identità umane (incluso quella gay) sono frutto di una negoziazione su e fra questi tre aspetti.
È proprio questo il problema che ha il “culto trans”. Se il nostro parere soggettivo fosse sufficiente, non ci sarebbe nessuno scontro.
Il problema è che per essere “valide”, le identità debbono essere con-validate dagli altri.
Lo scontro nasce dal rifiuto di negoziare, da una parte e dall’altra. Non da ignoranza, o da “biologismo”. Non puoi semplicemente imporre agli altri di convalidare la tua identità “perché lo dico io”.
Se io sono Robinson Crusoe, posso anche proclamarmi e ritenermi il monarca assoluto dell’isola, e non sorge nessun problema.
Però solo fino a quando sbarcano i cannibali… quando posso avere qualche problemino a restare il “re dell’isola”.
Il “problema” quindi, sono loro, non le mie concezioni sul governo. Il problema sono gli altri.
L’approccio postmodernista e libertariano oggi prevalente vede le identità come una questione puramente individuale, in cui gli altri non devono mettere becco (perché la società è sempre e solo un male e un problema, mentre l’individuo è tutto, e l’individualismo è il bene supremo, e gli altri sono sempre e solo un problema e un ostacolo e mai una risorsa…).
Creando così un problema irrisolvibile, vista la natura sociale (ossia socialmente negoziata, socialmente costruita, in modo interattivo) delle identità, che non può essere risolta a livello di individuo, ma solo a livello interpersonale, cioè sociale.
Noi siamo uomini e donne, o gay, o italiani, o giovani e vecchi, perché confrontiamo la risposta di ciò di cui abbiamo coscienza di essere, attraverso l’atto di rispecchiarci nel modo in cui gli altri ci vedono, e viceversa.
È questo che ha reso possibile la transizione di genere, fino ad oggi: un contratto sociale.
Rifiutare, per ragioni ideologiche a base antisociale, l’idea stessa di contrattare, pretendendo che la propria realtà soggettiva diventi semplicemente realtà oggettiva per l’intera società, ha messo a nudo il meccanismo e sta rischiando di romperlo.
Perché ognuno di noi possiede una realtà soggettiva, e se sette miliardi di realtà soggettive diventano realtà oggettive, allora non esiste più nessuna realtà oggettiva: la mia vale quanto la tua e un approccio “biologista” e cosiddetto “Terf” è altrettanto “valido” di un approccio “intersezionalista” e transqueer, e va accettato e rispettato tanto quanto. Benvenuti nel relativismo morale.
A questo punto ci resta solo l’uso della forza per imporre come “oggettiva” una di queste realtà (del resto per i postmodernisti questo è il modo normale in cui la realtà diventa tale), e al di là dell’accettabilità o meno di tale approccio (che, sia chiaro, io rifiuto), visti i rapporti di forza in campo (99% contro 1% della razza umana) non ho nessun dubbio su dove possa portare.
Pertanto un simile approccio è sconsigliabile non sulla base di elevate considerazioni morali, ma su basi volgarmente tattiche.
È sempre un piacere leggere i suoi articoli.
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Il piacere è mio per il suo apprezzamento.
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Grazie per la gentilezza 😊
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Caro Giovanni, sono assolutamente d’accordo con te sulla premessa, ovvero sul fatto che la nostra identità è frutto di una complessa interazione di fattori, ma non sulle conclusioni che ne trai. La tua affermazione secondo cui l’identità deve essere frutto di una contrattazione ti espone a molte critiche. Con chi dobbiamo contatrattare? Con la società, ovvero un insieme di individui che sappiamo bene non la pensano allo stesso modo (per averne un’dea basta guardare la frammetazione politica che esiste in Italia). Forse ci si dovrebbe riferire alle idee della maggioranza, ma una maggioranza rappresentativa di tutta la società che percentuale deve avere? Entriamo nel ginepraio della statistica da cui non se esce indenni. I paesi del nord Europa hanno capito che l’unica strada è quella di ritornare la principio del liberalesimo ottocentesco: lo stato (e quindi la società) deve entrare il meno possibile nella vita privata dei cittadini. Infatti quei paesi si stanno orientando verso leggi per cui ognuno può recarsi all’anagrafe e chiedere che sui documenti venga scritto il genere che si desidera, l’ufficiale d’anagrafe deve limitarsi a registrare.
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Caro Davide, l’errore della tua impostazione è presto detto: a che cavolo frega all’anagrafe registrare il mio genere? Voglio dire, allo Stato e al Comune, cosa cambia se mi identifico in uno piuttosto che nell’altro dei cento “generi” oggi offerti sul mercato?
E che dire delle persone non-binary? E di quelle poligender? E quelle agender? Vuoi che siano obbligate a forza a dichiarare un genere che non hanno?
Tu dici che lo Stato deve stare fuori dalle nostre vite, poi però proponi che si impicci nelle nostre sensazioni soggettive, come lo è il genere. Ma se io ho voglia di cambiare genere tre volte al giorno, sono affari miei.
La sola cosa che non può cambiare, perché è scolpita nelle cellule, in ogni cellula, è il sesso biologico. Che ha senso registrare per tutta una serie di motivi, in primis medici, ma anche di altro tipo. Tutto il resto, allo Stato non deve interessare.
Quanto alla tua domanda iniziale, lo so che magari ti terrorizza, ma la risposta è: le identità si negoziano con tutti e con ciascuno, in ogni momento della vita, in un’interazione continua, di cui non ti rendi neppure più conto, ma che esiste. Se quando tu ti presenti dicendomi, “Salve, sono Davide Gaspari”, io ti rispondo: “No, non lo sei”, uno di noi due ha un problema.
La vita funziona così.
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