Perché è lecito parlare di “omosessualità antica”.

Di: Giovanni Dall’Orto

In data primo marzo 2024 ho scritto su “Fognabook”:

Frase sentita ieri alla Libreria Antigone di Milano alla presentazione del libro di Vincenzo Patanè, Icone gay nell’arte: “Siamo tutti d’accordo sul fatto che non ha senso parlare di “omosessualità” quando parliamo dell’antica Grecia”.

Vero, perché nell’antichità, mentre l’omosessualità esisteva, non esisteva la Grecia. “Graecia” è infatti il nome di una divisione amministrativa dell’impero romano, oppure è uno stato moderno, nato solo nell’Ottocento. I greci, invece, non si sono mai definiti in passato e non si definiscono neppure oggi “greci”, ma semmai “elleni“.
C’è di peggio. Per tutto il periodo medievale, i greci bizantini si sono definiti “romani“, rivendicando il fatto di essere i legittimi continuatori dell’impero romano.

Eppure, curiosamente, qui è il termine “omosessuale” che crea problemi, laddove quello di “Grecia” è usato in modo aproblematico “essenzialistico”, transistorico, anacronistico, senza alcun problema.

Qualcuno per caso rileva qualche bias, qualche resistenza culturale, in questo approccio?
(P. S. Soluzione dell’enigma: i “greci antichi” credevano che alcune persone nascessero con un’attrazione esclusiva verso le persone del loro sesso. L’espressione di tale attrazione, socialmente costruita in maniera diversa dalla nostra, possiamo tranquillamente definirla “
omosessualità greca antica“, proprio come parliamo di “Grecia antica“. È semplicemente una stenografia verbale, che ci evita di dover dire: “Il fenomeno oggi definito omosessualità, così come inquadrato e socialmente costruito nell’area geografica che nella costruzione sociale odierna chiamiamo Grecia”.

Ma yeah, stranamente è sempre l’omosessualità a creare problemi. Perché l’omosessualità non esisteva, e non esiste, non deve esistere neppure oggi. Chiediamoci perché).

La professoressa Paola Mazzei ha giustamente puntualizzato, nelle risposte, sempre su Facebook:

Mai stato nome di provincia romana, la provincia romana si chiamava Achaia. Sul perché Grecia è diventato per i non greci il nome dell’Ellade, cerca con gogol, altrimenti tariffario lezione storia antica attenzione alle bucce di banana, sul resto possiamo discutere per chiarirci, sul nome della provincia NO. Aggiungo: possiamo discutere volentieri sul perché per l’antichità non si può parlare di “omosessualità” secondo il nostro significato . Leggere il libro di Cantarella aiuta, l’ho letto come sempre con la matita rossa e blu, e il voto è “ottimo“.

Avrei qualcosa da dire a proposito del dito e della luna, ma prima devo dichiarare che la professoressa Mazzei ha comunque ragione: io stavo “solo” scrivendo al volo un post di Fognabook e non un saggio, tuttavia se ci si espone pubblicamente con una affermazione precisa, tale affermazione deve essere precisa, anche se è “solo” per Facebook.

Ecco perché ha ragione la professoressa Mazzei e ho torto io: non è mai esistita una “provincia romana di nome “Graecia”. È esistita soltanto una “regione geografica” (e culturale), quella a proposito di cui fu scritto: “Graecia capta ferum victorem cepit”. Che tuttavia non indicava uno stato o una provincia romana, quanto semmai l’area di civilizzazione originaria (pre-Ellenismo) della “grecità”, tanto è vero che i romani parlavano di Magna Graecia (la “Grande Grecia”) per indicare il Sud Italia dove si parlava greco. In ogni caso, non era uno stato, non era un’area geografica ben circoscritta, e no, non era una provincia romana. Semplicemente, non era, non esisteva – per lo meno, non nel senso che intendiamo noi oggi quando diciamo “La Grecia”. Qualunque cosa fosse (dopo tutto, era “grecità originaria” anche la costa anatolica sul Mar Egeo, per dire!), non era ciò che è per noi oggi.

Quod erat demonstrandum.

Ciò premesso, il dito e la luna, appunto. Perché il mio post diceva non solo, come la prof. Mazzei sottolinea, che “per l’antichità non si può parlare di “omosessualità” secondo il nostro significato” ma addirittura che “non è lecito parlare per l’antichita di NIENTE secondo il nostro significato“. Perché? Semplicemente perché il significato è quello moderno, e non quello dell’antichità.

Prendiamo come esempio il titolo del libro di Eva Cantarella a cui allude la professoressa Mazzei, “Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico”. Il libro è effettivamente eccellente, ma il titolo è sbagliato. Perché? Perché non esisteva la “bisessualità” nel mondo antico, conseguenza logica del fatto che “qui siamo tutti d’accordo” sul fatto che non vi esistevano l’”omosessualità” e l’”eterosessualità”. Quindi non poteva esistere neppure la compresenza delle due cose.

Del resto, come ho appena sostenuto, non esisteva neppure il “mondo antico” e, ciliegina sulla torta, secondo Foucault non esisteva neppure la “sessualità”, che è un concetto ottocentesco costruito dal Potere ai fini del controllo “biopolitico”. Foucault ha scritto svariati volumi per “dimostrarlo”.

Quindi, Eva Cantarella parla di qualcosa che non esisteva.


O forse no.

In effetti, forse ciò che non esisteva erano semplicemente le parole che usiamo oggi per definire quel “qualcosa”. Abbiamo però testi antichi in cui, parlando di una persona a cui piacciono sia i maschi che le femmine, si applica il ternime di “ambidestro” (αμφιδέξιος). Dunque, il fenomeno, il significato, l’orientamento esisteva già, esattamente come avveniva per il fenomeno affine, l’omosessualità (e, in assenza della parola “lesbismo”, per parlare della preferenza sessuale di Saffo fu usato l’esilarante “donnaerastria”, γυναικεράστρια, il che dimostra che, con buona pace dei postmodernisti e dei foucaultiani, i fenomeni non stanno lì ad aspettare che vengano inventate le parole, per iniziare a esistere).

Ciò premesso, è comunque innegabilmente vero che non esisteva ancora il significante, la parola per definire quel significato “come facciamo noi oggi”.

La parola “bisessualità” nasce in effetti solo nella botanica del XVII secolo per indicare, specificamente, i fiori che portano su di sé gli organi sessuali di entrambi i sessi (stame e pistilli). Significativamente, questo di “ermafroditismo biologico” è ancora il solo significato noto nel 1985 al Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia, vol. III. Esiste in effetti un bellissimo studio storico di Valerio Marchetti (L’invenzione della bisessualità. Discussioni tra teologici, medici e giuristi del XVII secolo sull’ambiguità dei corpi e delle anime, Bruno Mondadori, Milano 2001), che usa questo termine dall’inizio alla fine del libro per indicare non l’orientamento sessuale, bensì lo pseudoermafroditismo umano o, come sarebbe di moda definirlo oggi sui social media, la “intersessualità”.

Quanto all'”altro” significato, quello di Cantarella, dopo un periodo d’uso informale nel mondo omosessuale (il militante omosessuale Marc André Raffalovich lo usò nel 1896), esso fu infine sdoganato dall’“entomologo, aracnologo ed antropologo” (sic) Karsch-Haak, nelle sue opere del 1906 e 1910 sulla sessualità umana. Da qui filtrò nella psicoanalisi, e da lì ovunque.

Interessante. Una parola sola, e già tre significati incompatibili fra loro (“ermafroditismo perfetto nelle piante”, “pseudo-ermafroditismo umano”, “orientamento sessuale umano”). Ci si chiede davvero come noi esseri umani riusciamo a comunicare…


Tutto ciò ci porta al delizioso paradosso di Foucault, forse il mio preferito, che disse che non si può parlare di “uomini antichi”, perché il concetto di “uomo” che usiamo parlando oggi è quello moderno. Vero, ma ciò non ci dice nulla di nuovo, perché vale per qualsiasi concetto. Anzi, è perfino peggio di così.

Ogni “testo” significa infatti secondo il suo “contesto”. Il quale contesto cambia, non solo a seconda del tempo, cosa che ogni storico sa, ma anche all’interno dello stesso tempo storico a secondo della situazione, della classe sociale, dell’ideologia, della cultura di chi parla e di chi ascolta, dell’umore e della condizione mentale di chi lo usa… Eccetera eccetera eccetera. Quindi, non si può parlare neppure di “uomini moderni”, per dire. O di “donne”, antiche, o moderne che siano.

In effetti, riuscire a rispondere alla domanda “Chi è una donna?” è oggi impossibile, grazie ai raffinati strumenti teorici del postmodernismo. E con questa premessa, vorremo adesso parlare di “donne” dell’antichità, come se davvero fossero mai esistite?

Ebbene: neppure la parola “omosessualità”, a seconda del fatto che sia usata dalla professoressa Mazzei e me, o da me e da Pillon, vuole dire la stessa cosa, anche se siamo perfettamente contemporanei. Figuriamoci se ci dividessero 2500 anni di storia!

Eppure, la storia non ci parla di marziani: ogni generazione nasce letteralmente dal grembo di quella precedente. E l’acqua calda non l’abbiamo inventata noi, anche se possiamo discutere sino allo sfinimento (come i sofisti postmodernisti adorano fare – in effetti, è l’unica cosa che siano capaci di fare) di cosa voglia dire “acqua”, e “calda”.

Posta al loro modo, insomma, a furia di spaccare le parole in quattro, la questione significa che la comunicazione fra esseri umani è impossibile. Siamo tutti chiusi nel nostro solipsismo, e comunicare è un’illusione. Nessuno potrà mai davvero capire ciò che “vogliamo” dire. E nella misura in cui noi stessi cambiamo per tutta la vita, e che esprimiamo a noi stessi i nostri dubbi usando il linguaggio, il quale ha i limiti appena esposti, è dubbio che noi stessi riusciremo mai a capire cosa vogliamo dire a noi stessi, e quale sia quel “true self” che milioni di ragazzine e ragazzini inseguono invano sui social media.

Alla fine, non stupisce che una civiltà che crede a tali premesse bacate, che portano a tali conclusioni altrettanto bacate, abbia visto l’esplosione dello “spettro autistico” e dell’antisocialità neoliberista.


Il punto che il postmodernismo vuole nascondere, con i suoi sofismi, con i suoi “non si può parlare di”, è che la realtà è sempre dialettica, polifonica, plurale, complessa.

L’omosessualità? Come qualsiasi altro fenomeno umano, è un fascio di possibilità. Lo era nella “antica Grecia” e lo è oggi. Questo perché non esiste un modo di essere omosessuale. Ne esistono otto miliardi. Come ai tempi antichi. Esattamente come non esiste “un” modo di essere “queer“. La queeraggine è in effetti solo una costruzione sociale, un modo contemporaneo di vedere le cose, che però nell’antichità non esisteva e non è mai esistitito prima d’oggi. L’idea stessa di queering the past è quindi solo un modo ipocrita di contrabbandare il presentismo come se fosse una novità, “restituendo” ai testi del passato significati che il passato non si è mai sognato di inserire, ma noi sì.

Ebbene, esattamente come alcuni di questi modi d’essere omosessuale oggi, altamente idiosincratici, sono totalmente unici e non si riscontrano nel passato (e spesso neppure nel presente, a parte un unico individuo), altri di questi modi di essere omosessuale oggi, invece, si sovrappongono non solo fra loro, ma anche con quelli antichi. Che esistevano già, ovviamente, perché, qualsiasi cosa significhino le parole per indicarle, l’acqua calda (o la bisessualità) non le abbiamo inventate noi.

In effetti, l’“omosessualità antica” non ha mai iniziato a un certo punto ad essere “moderna”, né l’omosessualità “moderna” ha mai smesso di essere “antica”. Svariati modi d’essere omosessuale hanno coesistito a fianco a fianco per secoli, e si sono perpetuati per secoli, vedendo prevalere nella narrazione dominante della società ora un tipo di approccio, ora un altro, a seconda del momento storico e della cultura.

Quello che è cambiato (di continuo, a volte di anno in anno, e comunque sempre di persona in persona) sono quindi le parole per dirlo, i concetti, i “discorsi”, la concettualizzazione del fenomeno. Quello sì, che è un fiume in cui è impossibile bagnarsi due volte. Ma nella misura in cui lo è, è ineffabile, visto che ci è impossibile comunicare un concetto senza causarne il cambiamento nella mente nostra e in quella di chi ci ascolta, perché l’atto di comunicare modifica la percezione.

Ma se tutto ciò che ho appena scritto fosse vero, allora non ci sarebbero consentite conoscenze, ma solo Rivelazioni, da parte di guru, che non possono però realmente “spiegarci” le cose, perché se lo facessero, daccapo, cambierebbero i termini della questione, rendendo invalida la spiegazione.


Ecco perché tutte le dottrine postmoderniste si organizzano come sette religiose, con dogmi indiscutibili, trasmessi per autorità, imparati a memoria, mai dimostrati e soprattutto mai discussi da nessuna/o (“L’omosessualità è una costruzione sociale contemporanea”. “OK, dimostralo”. “Ma lo sanno tutti”. “Va bene, ma su quali evidenze si basano i “tutti”?”. “Lo ha detto Foucault”. “E Foucault su quali documenti si basava? Io ho questo e questo e questo documento che dimostrnano l’opposto”. “OK, boomer: sei ridicolo!”. Ecco, questo è il tipico “dibattito accademico” con postmodernisti o queer).

Quel che c’impedisce d’identificare omosessualità antica e moderna non è infatti che “nell’antichità non esisteva l’omosessualità moderna“. È (e mi ripeto) che nell’antichità non esisteva l’antichità. La “Grecia antica” come la conosciamo noi è un concetto nostro, moderno. È un’astrazione, una costruzione ideologica moderna.

Basti solo pensare agli infiniti dibattiti sul “quando finisce l’Antichità“. Su cui sappiamo solo una casa: di sicuro, non nel 476 d.C. Nessuno di coloro che vissero nel 477 ebbe l’impressione di vivere oltre una “frattura epistemica” Al contrario, tutti vissero e agirono pienamente convinti dell’esistenza di una continuità fra il prima e il dopo, fra il 476 e il 477. S’illusero? No. Le “fratture epistemiche” sono infatti solo costruzioni ideologiche delle storiche e degli storici, e non delle società che esse studiano. Esistono solo nella loro testa, e non nella storia.

La storia è infatti flusso, la storia è “il” flusso (degli eventi), come ci ammonì Lui.
L’errore dei postmodernisti sta nel voler definire il fiume come fenomeno immutabile e fisso, salvo poi arrivare – non riuscendoci – alla conclusione che siccome non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, allora il fiume non esiste.

Il punto è che invece il fiume (fuor di metafora, l’omosessualità) esiste solo in quanto flusso. La nostra lingua chiama “fiume” un “flusso continuo di acqua”. Se non ci fosse flusso, non ci sarebbe fiume, al massimo uno stagno (eppure no, non ti puoi bagnare due volte neppure nello stesso stagno!).

Il flusso, la variabilità, il cambiamento, la dialettica, la lotta di classe, sono l’elemento costante dell’esistenza umana. Tutto scorre. Tutto corre via. Tutto cozza e muove tutto il resto.

Il tentativo dei postmodernisti di dare una definizione cripto-essenzialista dell’omosessualità è quindi destinato allo scacco. Non esiste “una” omosessualità. Ne esiste una per ogni essere umano ed una per ogni istante della vita di ogni essere umano. Esistono “le” omosessualità e “le/gli” omosessuali.

Noi chiamiamo quindi “omosessualità” l’insieme, la somma, l’aggregato, il flusso di tutti questi miliardi di esperienze, che hanno elementi di profonda affinità (quello qualificante fra tutti è l’attrazione per il proprio sesso), ma anche elementi di profonda diversità.


Gli elementi di profonda affinità sono quelli che mandano in bestia la società eternormativa, perché la loro mera esistenza pone in dubbio il fatto che l’eterosessualità sia, ebbene sì, “normativa”; mentre gli elementi di profonda diversità sono quelli che mandano in bestia quella parte del mondo omosessuale che vuole insistere sul fatto che: “io non sono mica come quelli là. Quelli là sono froci e checche / …sono gay borghesucci / quelle là sono lesbiche Karen / …sono TERF / …sono lelle transfobiche… Io invece sono diverso da loro e sono meglio di loro”.

Dal matrimonio fra queste due opposte omofobie è nata la “teoria queer”, che nega, che ha bisogno di negare, che esiste unicamente per negare, l’esistenza di elementi comuni fra le diverse omosessualità. Questa “Poco Santa Alleanza” giura in effetti che non esistono, non possono esistere e non devono esistere né gli omosessuali né l’omosessualità. Amen.

Da qui trae alimento la tesi, secondo cui non è legittimo parlare di “omosessualità antica nel senso in cui l’intendiamo noi”, il cui obiettivo finale è in realtà negare che l’omosessualità sia mai esistita, se non come fenomeno artificiale e moderno, frutto del Potere (e destinato presto a sparire).

Ma su questo magari tornerò in futuro. Per chi nel frattempo volesse approfondire le radici del mio ragionamento, ci ho scritto su un libro di 700 pagine, incluse 200 di note e bibliografia, intitolato Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra, a cui, pigramente, rimando.


Post scriptum. Il vero motivo per cui noi oggi possiamo eccome parlare di antichità secondo i termini di oggi, è che noi possiamo parlare di qualunque cosa solo attraverso i termini di oggi. Non avremmo comunque alternative, anche se volessimo fare altrimenti.

Qualunque definizione diversa da “omosessualità” noi diamo al fenomeno omosessuale nell’antichità, sarà comunque una definizione di oggi, e non del passato. Perfino se io parlassi surcigliosamente di Παιδεραστία (paiderastìa) per fare il figo filologico, ciò che implicherei io usando quel termine conterrebbe comunque 2300 anni di cose dette attraverso esso, che un parlante greco del 300 a.C. non aveva mai udito o implicato.

Posso, se voglio, usare la sua lingua per parlare di lui. Non però posso essere lui.

Quindi, chiunque affermi di parlare “secondo gli esatti termini antichi”, e “secondo i concetti antichi”, o è incapace perfino di vedere questa banalità, oppure la vede, ma per motivi ideologici vuole ingannare chi la/lo legge.

Solo lo storica che sa che ogni storica è figlio del proprio tempo e ne è quindi condizionata, e che “ogni storia è storia contemporanea”, può avvicinare il passato con il dovuto rispetto dovuto a un “paese straniero”, ma al tempo stesso non alieno, perché tutti noi, nessuna escluso, veniamo da lì.

Coito omosessuale intercrurale, da un vaso greco.

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