A proposito di “Post-strutturalismo, Butler e i corpi”, di Jane Jones.

(Nella foto: Jane Jones. Dal suo account twitter).

Una femminista dichiaratamente post-strutturalista, Jane Clare Jones, ha scritto un saggio in tre parti (con linguaggio non astruso, perfettamente leggibile per chiunque abbia una minima conoscenza del tema di cui sta parlando) contro la vulgata prevalente che vede nel post-strutturalismo e nei suoi germogli (come costruzionismo, teoria queer eccetera) una teoria che nega la realtà ontologica del sesso, e quindi è antagonista del femminismo imperniato sulla differenza sessuale (si veda il tweet riprodotto in apertura dello scritto) — nonché, aggiungo io, del movimento di liberazione omoSESSUALE. (Link: https://janeclarejones.com/2018/07/18/post-structuralism-butler-and-bodies/ )


 
Nelle prime due parti del testo l’autrice spiega perché, a suo parere, tale idea sia errata, e sia nata da una cattiva lettura del pensiero post-strutturalista. Avrei appunti da muovere a tanto ottimismo, tuttavia questo è il suo punto di vista, solidamente argomentato, quindi va rispettato per quel che è.
 
Nella terza (la più lunga ed interessante) passa infine ad elencare i veri e propri errori logici di autori come Foucault e Butler che hanno reso possibile tale lettura errata (particolarmente gustose le note, in cui punta il dito contro l’essenzialismo e il binarismo implicito in tanto pensiero che si proclama antiessenzialista e antibinario).
 
In particolare Jones si concentra su Judith Butler, di cui fa una analisi critica dettagliata. L’errore fondamentale, afferma Jones, è avere letto Butler come filosofa femminista. Cosa che non è. Butler non è infatti interessata al femminismo, bensì alla teoria queer.
Questo non vuol dire che non senta e non denunci l’oppressione che il patriarcato esercita su di lei in quanto donna, ma, per sua stessa dichiarazione, non è questo che cattura il suo interesse e la sua attenzione.
Butler scrive infatti a partire dal punto di vista della lesbica “non conforme” ai ruoli di genere, da cui si sente oppressa, e che desidera scardinare.
Questo equivoco ha portato a vari vicoli ciechi e contraddizioni insanabili.
(Citazione: “Anyway, the issue with Butler is not, fundamentally, that her interests are not feminist interests. That’s fine, in principle. The problem with Butler is that in articulating a solution to dealing with her wound she does something that makes it near impossible for women to articulate theirs. What that then leads to is a situation which feels like a zero-sum game in which two groups of people who both have very legitimate reasons for their hurting, end up playing their wounds off against each other – and it’s no surprise that in a situation like that, things would get extremely ugly extremely fast, and lots of people would wind up getting very very hurt“).
 
Il saggio prosegue con analisi e soluzioni che chiaramente prendono di mira il rovente confronto che oggi oppone attivist* queer e femministe, specie nel mondo di lingua inglese ma in misura minore anche in Italia.
Jones offre una proposta di buon senso che a mio parere può essere una sintesi accettabili per tutt*.
Detta in soldoni (ma consiglio vivamente di leggere le sue parole direttamente, non le mie due righe di sintesi, che qui propongo solo per quanti non leggono l’inglese) Jones sottolinea la natura composita del reale, nel quale significati e significanti coesistono in con-testi che tutti assieme e contemporaneamente costituiscono ciò che noi percepiamo come il reale.
Non è possibile credere di vivere in un mondo di “fatti oggettivi” (come a torto pensavano i positivisti) ma neppure credere – ed è l’errore che Jones qui contesta – in un mondo di parole, di “discorsi”, nel quale sono le parole a portare ad esistenza i fatti (ossia in cui è stato il concetto di “genere” ad avere generato l’assunto erroneo che esistano i “sessi biologici”, percepiti come due in quanto il sistema del genere è binaristico). Questo è “poststrutturalismo volgare” (definizione mia, non sua), e fraintendimento della posizione filosofica che Jones sta difendendo.
Ciò ovviamente porta a soluzione anche la contrapposizione fra “donne biologiche” e “donne trans”:
Trans-women are trans-women – and the fact that this debate is being framed by the exclusionary binary choice between either ‘trans-women are men’ or ‘trans women are women’ is pretty indicative of exactly how non-deconstructive the thinking is. Trans and natal women are both the same and different, and a whole lot of this mess could be sorted out if we could all just be honest about where we are the same and where we are different, and where, therefore, we have the same political interests and where we don’t.
 

Questo è uno dei due o tre testi più interessanti che abbia letto nell’ultimo anno, e lo raccomando: se lo si trova difficile, invito a perseverare, perché vale lo sforzo. Non è la solita affabulazione fine a se stessa tipica del delirio queer alla “Abbatto i muri”, qui ci sono argomentazioni logiche a cui è possibile acconsentire o fornire una confutazione, ma almeno esiste una base logica a quanto viene affermato.
 
La mia unica e sola obiezione. Se davvero, come Jones eloquentemente argomenta, è sbagliato tradurre il logocentrismo derridiano come: “Esistono solo parole”, dato che per Derrida la parola è un crocevia di significati, un coagulo di implicazioni provenienti dal tutto quanto il con/testo, allora Derrida non ha detto nulla di nuovo o geniale, dato che sta solo dicendo che ogni parola (ed ogni testo) “significa” cose diverse a seconda del contesto. Ma questo è al meglio Saussure (quindi nulla di genialmente nuovo), e al peggio banalità già nota nel medioevo.
Se Derrida ha detto quel che gli si mette in bocca, ha detto una cosa nuova ma idiota; se invece ha detto quel che corregge Jones, ha detto una cosa vera ma vecchia e risaputa. In entrambi i casi, difenderlo come genio è piuttosto inutile. (Il che non toglie, ovviamente, il diritto di Jones a difenderlo come tale, se lo ritiene importante).
 
 

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