“L’identità di genere non esiste”. Davvero?

(Nel titolo: bandiera delle persone agender, che affermano di non avere genere e quindi identità di genere).
All’inizio sono stati segnali sparsi. Persone che scrivevano sulla mia pagina Facebook frasi come: “Io non credo nell’identità di genere“, che a me suonava semplicemente come: “Non credo nella Luna”, o “Non credo nell’autunno”.
Poi è stata una discussione con una giovane e intelligente attivista lesbica anti-queer che (causando il mio sbalordimento) ha argomentato con impeccabile logica queer che l’identità di genere è un costrutto sociale, privo d’una sottostante realtà ontologica.
Alla fine, la diga è esplosa, e l’uscita del pamphlet di Daniela Danna La piccola principe ha dato la stura al gioco a rimpiattino fra le pagine Facebook fra chi “crede” e chi “non crede” all’esistenza dell’identità di genere. Oh mamma mia.


Ora, io personalmente non vedo come si possa “non credere” all’esistenza dell’identità di genere. Comprendo che definire in modo univoco ciò che voglia dire “identità di genere” sia difficile e forse anzi impossibile, però lo stesso si può dire non solo di “orientamento sessuale” (tant’è che gli oltranzisti cattolici negano che esso esista), ma addirittura di “uomo” e “donna”, oppure di “sesso”.
Che sia difficile capirsi su tali concetti è vero (anzi, qui mi pare si stiano divertendo tutt* a giocare a non capirsi) ma ciò non autorizza a “credere” che non esistono uomini e donne, o che non esistono orientamenti sessuali.
Semplicemente, ci sono cose che non possiamo comunicare, se non nel senso d’indicare al nostro interlocutore quale area della sua esperienza coincida con quell’area della nostra esperienza che definiamo con una determinata parola. Detto in parole povere: non posso spiegarvi cosa sia il blu o il rosso, posso solo indicarvelo. Quindi se siete non vedenti o daltonici, le parole saranno incapaci di comunicarvelo. Il che non implica che le frequenza d’onda della luce che indichiamo coi nome di “blu” (circa 470 nanometri) o “rosso” (fra 645 e 750 nanometri circa) non esistano, al punto da poter essere usate anche da un cieco per colorare, se riceve la corretta indicazione della frequenza d’onda, o più banalmente il numero di catalogo Pantone.


Se non vi ho convinto con questo esempio, pensate allora al concetto più importante per ciascuno di noi: “io”.
Supponiamo di trovarci in faccia a un alieno appena sbarcato da un’astronave. Diciamo che questo essere ha una coscienza-alveare condivisa e quindi non possieda il concetto di “individualità”, e dopo avervi rianimato dallo svenimento chieda con molta cortesia: “Spiegami il concetto di “io”. L’ho trovato studiando la vostra lingua, però non l’ho  capito”.
Cosa gli rispondereste? Cosa vuole dire “io”? E’ un concetto che usate decine, centinaia di volte al giorno, però riuscite a darne una definizione che prescinda dall’esperienza di possedere un “io”? No, vero?
Però  questo vuol forse dire che non esista nulla che possa essere definito “io”? Che il concetto di “io” non sia “reale”? Che sia il frutto di una “credenza” a cui si può liberamente scegliere di credere o non credere?


Personalmente, io (sic) all’esistenza dell’identità di genere “credo”, come “credo” alla Luna e all’autunno, semplicemente perché sperimento dentro di me questa sensazione che mi fa pensare a me stesso come un individuo sessuato maschile e non altro che maschile.
Lo trovo un concetto essenziale per spiegare in che modo noi umani pensiamo a noi stessi come esseri sessuati.

Ma se è un aspetto tanto radicato quanto io affermo, come è allora possibile che  improvvisamente si sia scoperto che la Luna non esiste?
Nel nostro caso rispondere è abbastanza semplice, essendo chiaro da dove venga la tesi, e per quali scopi essa venga sostenuta.
Siamo infatti di fronte a una strategia retorica e argomentativa (pericolosa, ma anche geniale) in risposta alla fantasia butleriana secondo cui “esiste” solo il genere, perché il sesso è un “epifenomeno” (conseguenza secondaria) del genere.

Biological sex is a social construct
“Il sesso biologico è un costrutto sociale”. Parola di quella sciroccata di Riley Dennis.

In parole più comprensibili: siamo di fronte a una reazione (estrema) all’idea (altrettanto estrema) del pensiero queer, secondo cui il sesso di una persona va definito in base alla sua identità di genere. Perciò, se io “mi identifico” nel genere femminile ma ho un pene, secondo tale pensiero quello che possiedo sarà un “pene femminile”, e devo avere accesso a tutti gli spazi creati dalle donne per le donne, inclusi quelli specificamente basati sulla “differenza” data dal loro corpo sessuato, perché: “Le donne trans sono donne” anche se poi: “Alcune donne hanno il pene, fatevene una ragione“. [E il fatto che lo stesso movimento trans senta il bisogno di alcuni spazi e momenti riservati alle persone trans, non è per costoro indicativo di nulla!].

E nessuno ha il diritto di nutrire opinioni diverse su questo, che è un fatto indiscutibile:

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“Le donne trans sono donne. (Su questo non c’è nulla da discutere).” Fonte: https://me.me/i/trans-women-are-women-this-is-not-up-for-debate-15395501

Il che fa molto ridere detto da chi da trent’anni strilla che “non esistono fatti, solo interpretazioni“, ed ora scopre all’improvviso che invece no, i fatti esistono, e sono indiscutibili, come mostra il disegno che segue:

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“Affermare che alcune donne hanno il pene e che alcuni uomini hanno la vagina è biologicamente accurato. Perché le donne trans sono donne, gli uomini trans sono uomini, e la tua opinione sulla questione non cambia questo fatto”.

Ovviamente, se io nego l’esistenza stessa dell’identità di genere, questo giochino diventerà impossibile. Non potendo più “identificarmi” soggettivamente in un genere, dato che l’identità di genere non esiste, potrò definirmi sessualmente solo sulla base di caratteristiche oggettivamente riscontrabili, come quelle fisiche, ossia solo in base al sesso e non al genere.
Anziché bombardare le singole navi pirata queer, qui si fa saltare in aria il loro porto d’attracco, colpendone la Santabarbara.


 

Ora, sono anni che faccio notare l’incompatibilità fra presunta (dai queer) “fluidità” della sessualità umana ed esistenza della realtà delle persone trans, che fluida non è. Nel rilevare la contraddizione, però, il mio scopo era affermare la falsità del dogma della presunta “fluidità” (la sessualità umana è infatti elastica, non fluida), e non certo la falsità dell’esistenza del fenomeno trans. Cosa, sia chiaro, che non era mai venuto in mente a nessuno di fare in quasi mezzo secolo d’esistenza del movimento di liberazione lgbt. In altre parole per mezzo secolo froci, lesbiche, bisessuali e trans si sono più o meno sopportati a vicenda con successo maggiore o minore, ma non era mai successo prima che una delle lettere negasse l’esistenza, il diritto stesso d’esistere, d’una delle altre. Cosa è successo?

Be’, l’intersezionalismo. Che ha innescato lo scontro fra mondo trans e mondo delle donne (tutte le donne, non solo le lesbiche) mettendo in discussione l’esistenza stessa delle donne in quanto gruppo umano circoscritto dalla condivisione di una caratteristica fisica comune (il sesso).
Le brillanti menti intersezionaliste hanno infatti stabilito che donna è chiunque s’identifichi come tale. Motivo per cui: “Alcune donne hanno il pene, fatevene una ragione“.

Alcune donne hanno risposto che ciò va bene. Altre, il cui numero cresce di mese in mese, ha replicato: “ma anche no“.
Sono costoro che hanno reagito negando la legittimità di “identificarsi” a capriccio in un genere.


La zuffa per il momento si rivela particolarmente fitta sulla questione a mio parere assolutamente marginale del detransitioning, ossia delle persone trans che hanno iniziato e spesso completato la transizione medicalizzata (chimica e chirurgica), salvo scoprire che per loro non era una soluzione alla disforia, ragione per cui l’hanno interrotta e a volte ripercorsa nel senso opposto.

(Nota a margine, ma importante: questo fenomeno è molto meno comune in Italia che negli Usa, dove la sanità, essendo privata, pone meno filtri (quali autorizzazioni di psicologi e sessuologi) per la transizione, in modo da escludere la presenza di patologie mentali che compromettano la capacità di giudizio.
In altre parole, negli Usa chi ha i soldi per pagare un compiacente medico che gliela prescriva, certamente non gratis, può arrivare alla transizione medico-chirurgica senza particolari verifiche sul fatto che essa sia la soluzione più adatta al proprio caso.
Ciò ha reso possibili fenomeni demenziali, come persone trans che hanno transizionato, poi detransizionato, e poi detransizionato la detransizione, fornendo così argomenti ai gruppi “no gender” che vogliono dipingere la realtà trans come forma di malattia mentale, o al più come un pernicioso effetto della “moda” da loro battezzata “gender).


Seguo da qualche tempo sui siti stranieri la questione della detransizione, e fin qui ho notato almeno cinque fenomeni bizzarri nel dibattito su di essa.

1) Il primo è che molt* attivist* trans tendono a negare in massa che le persone detransizionate siano mai state trans. Uno dei miei corrispondenti ha addirittura definito “lesbiche butch” le donne trans (ex ftm) detransizionate.
Doppio errore. Primo, non tutti i trans ftm sono attratti dalle donne. Esistono anche trans ftm che sono attratti dagli uomini. Quindi, anche se fosse possibile liquidare i trans ftm eterosessuali come “lesbiche butch”, resterebbe comunque da spiegare il caso degli uomini trans ftm gay detransizionati, e saremmo al punto di partenza.
Secondo, qui si dà per scontato che tutte le persone disforiche detransizionate arrivino a considerarsi uomini o donne in accordo con il loro sesso biologico. Per alcune di loro è stato così, ma altre, almeno nei casi di cui ho letto io sui siti stranieri,  sono comunque rimaste disforiche: semplicemente hanno concluso che la transizione medicalizzta (ossia a base di ormoni e chirurgia) non era la soluzione alla disforia adatta a loro, ed hanno cercato altre strade. Per esempio la transizione “non-med”, ossia sociale ma non medico-chirurgica.

2) Il secondo è che anche le più accanite sostenitrici della tesi dell’inesistenza dell’identità di genere concordano coi loro nemici queer, e ciò è assurdo.
A sentire queste femministe, le donne trans detransizionate erano solo lesbiche che non s’accettavano come tali, dunque il problema è aiutare le lesbiche “non conformi al genere femminile” ad accettarsi per quel che sono: donne, con un ruolo di genere eterodosso, e un orientamento sessuale eterodosso.
Sorprendentemente, la stessa cosa affermano anche coloro sul fronte opposto sostengono che gli studi sulla detransizione sono solo fuffa transfobica, e che “nessuna” “vera” persona trans ha mai detransizionato.
In entrambi i casi, siamo di fronte a un’applicazione (da manuale) della fallacia logica nota come “Nessun vero scozzese“: chi viene mess* di fronte a un caso che confuta la propria tesi, ridefinisce in modo completamente arbitrario i termini della questione, in  modo tale da escludere come non pertinenti esattamente quei casi che possono confutarla. Semplice, comodo, e al 100% sbagliato.

3) Il terzo punto bizzarro è che nessun queer sembra notare che, se concedessimo che il punto citato al numero uno fosse vero, si starebbe comunque portando acqua al mulino di chi, come me, è contrario alla somministrazione di ormoni bloccanti ai bambini con presunte tematiche di identità di genere. Perché se si dice che le persone adulte detransizionate “in realtà” erano solo persone che “credevano” fermamente d’essere trans, e che erano pure state giudicate tali dai medici e dagli psicologi che avevano autorizzato la transizione, ma in realtà erano semplici lesbiche “cisgender” e confuse, allora a maggior ragione non lo si potrà forse dire dei bambini e delle bambine di dieci o dodici anni che “pensano” di essere trans? (Tornerò su questo tema in un prossimo articolo, per evitare di mettere troppa carne al fuoco qui).

4) Quarto punto: mi è stato suggerito che le persone detransizionate non fossero trans ma forse questioning, in ricerca.
Ma nemmeno facendo uso di questa ipotesi il ragionamento reggerebbe. Se una persona è “in ricerca”, allora non ha una identità, non nel periodo in cui la sta ancora cercando e non la ha ancora trovata. Se l’avesse già, infatti, sarebbe solo una persona che non accetta l’identità che ha, quindi non sarebbe “in ricerca”, bensì semplicemente “repressa“. Cosa ben diversa.
(Si noti in margine che la bravissima militante intersessuale di lingua inglese che twitta col nick di Mrkhtake2 ha descritto in un thread un breve periodo della sua adolescenza in cui non riusciva ad avere un’identità di genere, ma questo avvenne solo perché, prima delle analisi genetiche, non era chiaro a quale sesso appartenesse il suo organismo).

5) Ultimo punto: andando a sfruculiare nei deliri queer, si scopre che essi affermano apertamente che si può essere del tutto privi d’identità di genere, come gli agender (quella agender “Può essere vista come una identità di genere non-binaria, o come dichiarazione di non possedere un’identità di genere“, proclama la voce a cui porta il link che ho appena fornito), oppure si può dondolare da un’identità all’altra, come i genderfluid, o addirittura possederne una moltitudine schizoide, come i polygender.


Ops. Dunque, a quanto pare, era stato il pensiero queer il primo a teorizzare l’identità di genere come accessorio che solo alcuni esseri umani, e non tutti, possiedono.

La mossa magistrale del lesbofemminismo è stata quindi solo riconoscere le implicazioni profonde della decostruzione d’un concetto chiave della teoria queer, quello di “identità di genere”, che paradossalmente era già stata giulivamente operata dal pensiero queer stesso per lo sterile gusto di “decostruire” qualsiasi cosa.

La mossa retorica è scaltra, e non sarà facile controbattere, visto che gode d’impeccabili credenziali “queer”. Peccato solo che, chiunque vinca la partita, a perdere saranno le persone trans, che si vedranno negare il diritto a esistere da entrambi le parti contendenti.


Eppure il concetto di “identità di genere” non è un capriccio, non è un dogma, ma è la descrizione d’un fenomeno centrale del nostro essere persone sessuate. Se certi dogmatici hanno abusato di questo nome, allora cambiamo il nome, ma non buttiamo via il bambino assieme all’acqua sporca.

Vero, le persone non trans, per le quali sesso e identità di genere sono allineati, non sanno cosa farsene del concetto di “identità di genere”. Per noi non-trans basta quello di “identità sessuale”. Io non “mi sento” maschio: lo sono. Per me l’apparentenza al sesso maschile appare non come una identificazione soggettiva, bensì come una banale presa d’atto di un dato di fatto oggettivo.
Il problema sorge con chi si sente maschio, ma non lo è dal punto di vista biologico.
Non a caso il concetto di “identità di genere” era stato introdotto (da John Money) esattamente allo scopo di riuscire a differenziare, discutendo, fra “identità sessuale” della persona non trans che s’identifica col sesso biologico del corpo con cui è nata/o, e “identità del sé sessuato” della persona o trans o intersessuale che non s’identifica col sesso biologico del corpo in cui è nata/o.


Ripeto: se riteniamo che il sintagma “identità di genere” sia troppo “sputtanato” dall’uso dissennato e dagli abusi a volte psicopatici del fanatismo queer, inventiamoci pure altre definizioni, altre parole, per carità: nulla è sacro. Figuriamoci se devo scendere in guerra per difendere le invenzioni linguistiche del primo John Money che passa. Ma non buttiamo via un concetto che non solo è utile per capire e discutere il funzionamento della nostra sessualità, ma di cui non possiamo fare a meno.

A tal punto possiamo farne a meno, che mentre discutevo con la giovane e intelligente interlocutrice anti-queer di cui ho detto all’inizio, le ho chiesto come s’identificasse in quanto donna, visto che “non crede” all’identità di genere. Lei mi ha risposto: “Io non “mi identifico” come donna. Io sono, una donna“.

Il problema è però che l’identità di genere è esattamente quella cosa che ha fatto dire alla mia interlocutrice: “Io sono, una donna”.
Se la mia interlocutrice fosse stata, psicologicamente, un trans ftm, non avrebbe potuto pronunciare tale frase: la disforia (ossia l’intensa sofferenza psicologica che si prova all’idea di essere associat* al sesso biologico di nascita anziché al genere di elezione), gli avrebbe impedito di farlo.
La persona trans è esattamente quella che non è in grado di pronunciare la frase che  alla mia interlocutrice sembra tanto innocua, oggettiva, fattuale, neutrale, e soprattutto non controversa (e invece, chi saprà dirmi cosa sarà mai, “una donna” o “un uomo”, al di fuori delle definizioni culturali, e quindi arbitrarie?).


Insomma, l’identità di genere non solo esiste eccome, ma è una realtà talmente forte e talmente costitutiva del nostro “io”, che una persona non trans non riesce neppure a concepire, non riesce neppure sforzandosi a non trovare insensata, l’idea stessa che una persona possa avere una identità non allineata con la sua biologia di nascita. Se nasci coi cromosomi XY, allora “sei” maschio, punto e basta, è un banale dato di fatto. Io sono io, e sono me stesso, e non potrei essere altro da quel che sono. Il mio corpo si è formato seguendo il programma genetico di un cromosoma Y, “quindi” io sono maschio.

Ebbene no, questo è un falso sillogismo. Il sillogismo corretto è semmai: “Sono nato con un cromosoma Y, quindi il mio sesso cromosomico è maschile“. Questo è tutto ciò che posso concludere dal fatto di possedere un cromosoma Y, e null’altro.
Esistono infatti donne, con identità di genere femminile, corpo conformato in senso femminile, registrate alla nascita come donne, che per una anomalia biologica hanno cromosomi XY. Esistono casi, rari ma reali, di esseri umani con cromosomi XXY o XXXY che sono maschi, o X0 che sono donne, o XY che sono donne
Il “quindi” del ragionamento precedente è completamente sbagliato, insomma.
In questi casi il concetto di “identità di genere” è insostituibile, non è affatto un “costrutto sociale” ma l’indicatore preciso di una differenza radicata nei fatti e nei dati. Per esempio, una donna XY che soffre di “sindrome di insensibilità agli androgeni“, riconosciuta come femmina alla nascita e registrata come tale all’anagrafe, è però cromosomicamente, innegabilmente, indiscutibilmente un maschio.
Il fatto che costei nella gran parte dei casi “si identifichi” come donna ed abbia una identità di genere femminile non si basa quindi su un “dato di fatto indiscutibile”.
Quindi avere le parole, i concetti, per distinguere fra sesso genotipico, sesso fenotipico e identità di genere, è una necessità scientifica, fattuale, per descrivere la realtà in tutta la sua complessità stratificata.


Dobbiamo evitare come la peste che, per evitare l’approccio fanatico della teoria queer, la quale parte da Verità Rivelate, Indiscutibili… e mai dimostrate da nessuno (“La sessualità umana è fluida“, “Il sesso è un epifenomeno del genere“), si finisca poi per scadere nell’errore opposto, ossia in un riduzionismo biologico che, si noti bene, il femminismo ha sempre combattuto con tutte le sue forze, sottolineando che i cromosomi non configurano un destino sociale (“La biologia non è un destino“).
Il significato del fatto di avere corpi sessuati non deriva affatto im/mediatamente dalla biologia del sesso stessa, come invece affermano i cattolici del “no-gender”. Ogni riflessione sul possesso di corpi sessuati è sempre culturalmente e politicamente determinata, filtrata, condizionata.
La stessa frase “io possiedo cromosomi XX, quindi sono una donna”, è frutto di un’impostazione culturale, storicamente determinata, che solo cent’anni fa era semplicemente impossibile pronunciare. Semplicemente, non esistevano i concetti necessari per assemblarla.

Certo, è chiaro che l’identità di genere è un costrutto sociale, nella misura in cui ogni e qualsiasi nostra percezione di cosa significhi “essere donna” o “essere uomo” è socialmente, e politicamente, costruita.
Ma chi ha detto che ciò che è socialmente costruito, ad esempio l’essere donna e l’essere uomo, non è reale? La docente di letteratura comparata Judith Butler, mi dite?
E quindi?

Giovanni Dall’Orto

13 pensieri su ““L’identità di genere non esiste”. Davvero?

  1. non credo che l’identità di genere sia riducibile a un costrutto socio-culturale, il ruolo di genere lo è invece. E si può affermare che la maggioranza numerica delle donne ha crimosmi XX senza mancare di rispetto alle minoranze

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  2. lo dice la scienza, l’essere umano in formazione nell’utero materno è nei primi mesi ermafrodito, poi la struttura erettile diventa pene o clitoride, le ghiandole riproduttive diventano testicoli o ovaie, labbra e scroto sono tessuti equivalenti, ci sono tracce in entrambi i sessi di apparati genitali tipo mammelle utero e prostata che appartengono all’altro sesso in forma atrofica, quindi dal punto di vista genitale uomo e donna hanno una differenza di aspetto esteriore dei caratteri sessuali primari e secondari dovuta alla carica ormonale a cui sono soggetti i corpi nelle fasi di sviluppo intrauterino e nella pubertà, ma la sostanza è la stessa. infatti una donna che transiziona per diventare uomo assume anche a livello genitale forme maschili pur rimanendo con dimensioni più contenute, il clitoride diventa un piccolo pene vero e proprio, oltre alla forma del corpo che cambia radicalmente, e lo dico per esperienza diretta. quindi cominciamo a percepire la questione del sesso, del genere e anche dell’orientamento sessuale come farebbe la filosofia taoista, nel maschile c’è il femminile e viceversa, ed apprezziamo tutte le gradazioni di questa bella coesistenza fra maschile e femminile che c’è dentro ad ognuno di noi senza farci tante pippe mentali a definirci in categorie rigide che più che aiutare a vivere te la tolgono la voglia.

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